Nell’era contemporanea del motociclismo, pochi nomi riescono a evocare emozioni così forti come quello di Casey Stoner. Nato in Australia il 16 ottobre 1985 da Colin e Bronwyn Stoner – lui bracciante, lei figlia di allevatori di cavalli – Casey cresce immerso in un mondo di spostamenti continui, tra fattorie e case provvisorie, dove ogni lavoro finisce e si ricomincia altrove. La vita nomade della famiglia lo plasma fin da piccolo: una routine fatta di traslochi, di mani sporche di terra e di un legame profondo con la libertà che solo la moto può dare.
Fin da bambino, Casey si trova in sella a qualsiasi mezzo, quasi come fosse predestinato. La famiglia lo accompagna senza forzarlo: ci sono due versioni della sua infanzia. Nella sua autobiografia Push Into the Limits, racconta di un padre severo, quasi allenatore, pronto a spingerlo ai limiti, come succedeva ai grandi tennisti con i loro genitori. In un altro libro, invece, Stoner descrive Colin come un padre normale, innamorato delle moto ma mai pressante. Fatto sta che Casey, fin da piccolo, non gioca: la sua unica ossessione sono le moto, il motociclismo, il migliorarsi in sella.

A soli tre anni sale sulla PeeWee 50cc della sorella maggiore, anche lei campionessa di moto, dando così i primi segnali della sua passione innata per le due ruote. Dopo un periodo trascorso nel Nuovo Galles del Sud, la famiglia torna nel Queensland, dove Casey inizia ufficialmente la sua carriera agonistica.
A quattro anni disputa la sua prima gara di Dirt Track nella categoria under 9, ad Hatchers, Gold Coast. A sei anni conquista il primo titolo australiano, e da quel momento la sua vita si dividerà esclusivamente tra allenamenti, gare e viaggi. Gareggia nei campionati australiani di Dirt Track, su terreni scivolosi come ghiaccio, dove il controllo è tutto. È lì che si forgiano i piloti australiani più veloci sul bagnato: Mik Doohan, Jack Miller, Gary McCoy e Stoner stesso. Otto anni di gare su terreni impossibili, dove il freno anteriore era quasi un tabù e il controllo si imparava attraverso il rischio, trasformano il piccolo australiano in un maestro della curva. A sette anni comincia a usare il freno anteriore per sovrastare gli avversari, imparando a guidare con la moto fuori controllo, ruote bloccate, ma sempre pronto a spalancare il gas all’uscita di curva. È qui, in queste gare brevi ma intense, che nasce il suo marchio di fabbrica: correre al massimo, fin dal primo giro.
Fino ai 14 anni, Casey viaggia in tutta l’Australia accompagnato dal padre Colin, meccanico e guida nelle trasferte, dalla madre Bronwyn, che lo segue come insegnante, e dalla sorella.
Nonostante la giovane età, Casey accumula già oltre 40 titoli australiani tra Dirt e Long Track, a cui si aggiungono più di 70 titoli statali in cinque diverse categorie, con gare settimanali che spesso superano le 35 per weekend: in un’occasione vince addirittura 32 gare su 35.
Quando in Australia le gare su pista sono vietate ai minori di 16 anni, la famiglia decide di trasferirsi in Europa: è qui che Casey incontra il suo mentore, il pluricampione Mick Doohan, che lo guida e lo introduce alle competizioni su pista.
Nel 2000 prende parte ad alcune manche del Campionato Spagnolo 125cc, e in Inghilterra trova il supporto economico necessario per affrontare l’intera stagione. Alla fine della prima annata vince il titolo inglese del Campionato Aprilia 125cc.
Gareggiando contemporaneamente nel Campionato Spagnolo 125cc, Casey viene notato da Alberto Puig, che lo ingaggia nel team Telefonica Movistar per la stagione successiva. Nel 2001 corre sia in Inghilterra sia in Spagna, e nonostante qualche gara persa per infortunio, chiude secondo in entrambe le competizioni. Sempre nel 2001, partecipa come wild card al mondiale 125cc in Inghilterra e in Australia, arrivando rispettivamente 18° e 12°.

Nel 2002 il manager italiano Lucio Cecchinello lo porta nel team 250cc: a soli sedici anni, Casey diventa il più giovane pilota a qualificarsi nelle prime due file di un GP 250cc.
Nel 2003 decide di scendere di categoria, guidando l’Aprilia factory nel team LCR di Cecchinello, e termina l’anno ottavo assoluto. Nel 2004, a 18 anni, passa alla KTM 125cc, contribuendo allo sviluppo della moto e ottenendo la prima vittoria mondiale della casa austriaca ad Assen, chiudendo il mondiale al quinto posto.
Nel 2005 torna al team LCR nella 250cc, lotta per il titolo con Dani Pedrosa e sale sul podio dieci volte, vincendo cinque gare (Portogallo, Shanghai, Qatar, Sepang e Istanbul) e chiudendo secondo in campionato.
Nel 2006 approda in MotoGP a soli vent’anni, sempre con il team LCR di Cecchinello. Dimostra subito velocità e talento: alla seconda gara, in Qatar, realizza la pole position in Turchia e lotta fino all’ultima curva, chiudendo secondo a soli due decimi da Marco Melandri. L’anno d’esordio si conclude con un ottavo posto in classifica generale: Casey si inserisce perfettamente tra i top rider della classe regina, pur guadagnandosi il soprannome “Rolling Stoner” a causa delle frequenti cadute.

All’inizio del 2007, non ancora ventiduenne, sposa Adriana Tuchyna, di diciotto anni. Adriana lo segue in ogni Gran Premio e la coppia si trasferisce nel Principato di Monaco, vicino agli amici Troy Bayliss e sua moglie Kim. Talvolta si allenano insieme in bicicletta sulle colline del Principato, tra un impegno e l’altro. La loro storia inizia in modo curioso: Adriana, quindicenne, gli aveva chiesto un autografo durante una gara, tirandosi su la maglietta e facendosi firmare la pancia.
Nel 2007, Casey Stoner veste i colori rossi della Ducati, affiancando il veterano Loris Capirossi. Nei test invernali dimostra subito di aver trovato rapidamente il feeling con la Desmosedici GP7 e le gomme Bridgestone, piazzandosi spesso tra i più veloci. Durante la stagione ottiene risultati straordinari: 10 vittorie e tre podi lo consacrano campione del mondo già il 23 settembre a Motegi, con tre gare di anticipo. Oggi la ducati domina ma allora no. Casey Stoner è stato l’unico pilota capace di portare un mondiale alla Ducati in quegli anni. Nessuno degli altri, anche grandi nomi come Loris Capirossi, Marco Melandri, Nicky Hayden, Valentino Rossi, Andrea Dovizioso, Randy de Puniet, Hector Barbera e altri ancora, non sono mai riusciti a lottare davvero per la vittoria mondiale.

Non stiamo parlando della Ducati di oggi, quella che schiera ben otto moto in griglia e che ogni weekend conquista il gradino più alto del podio. No, parliamo di quella Ducati del 2007, una moto leggendaria ma complicatissima, difficile da mettere a punto, capace di esprimere il massimo solo sui curvoni veloci. Il tallone d’Achille? I cambi di direzione. Ogni curva aveva una traiettoria possibile: sbagliare significava perdere tutto. Eppure, Casey Stoner riusciva a danzare sulla pista come nessun altro, guidando con una fiducia che traspariva in ogni gesto, in ogni sorriso nel paddock, in ogni intervista post-gara. In Ducati, Casey stava bene, quasi convinto che la teoria del team come una grande famiglia dedita alla moto e al pilota fosse reale.
Ma l’anno successivo, nel 2008, quella convinzione iniziò a sgretolarsi. All’inizio della stagione, Ducati si presentò con una moto sostanzialmente invariata rispetto all’anno precedente. I giapponesi, invece, osservando i risultati e la supremazia di Stoner, non persero tempo: prepararono moto iper-competitive, ricche di migliorie tecniche. La stagione 2008 iniziò con una netta vittoria in Qatar, un inizio che sembrava promettere il bis. Ma presto Casey affrontò circuiti in cui la sua moto faticava a tenere il passo, accumulando distacchi nella classifica generale.
Eppure, grazie alle vittorie conquistate a Donington e al Sachsenring, Stoner tornò prepotentemente in corsa per il titolo. La sfida decisiva si giocò a Laguna Seca, un circuito leggendario dove ogni curva può scrivere la storia. Il Gran Premio degli Stati Uniti del 2008 a Laguna Seca rappresenta uno degli episodi più discussi e significativi nella storia recente della MotoGP. In quella gara, Valentino Rossi e Casey Stoner si affrontarono in una serie di duelli intensi, con il sorpasso al “Corkscrew” al quarto giro che ha attirato particolare attenzione. In quella manovra, Rossi ha esteso la traiettoria oltre i limiti della pista, passando sull’erba e sui cordoli, per poi rientrare in pista davanti a Stoner, mantenendo la posizione. Questa azione ha suscitato polemiche, con Stoner che ha accusato Rossi di aver guadagnato un vantaggio irregolare. Successivamente, Stoner commise un errore alla curva 11, finendo nella ghiaia e perdendo la possibilità di lottare per la vittoria. Nonostante ciò, riuscì a recupere fino al secondo posto, dimostrando poi un visibile disappunto nei confronti di Rossi, rifiutando di stringergli la mano in parco chiuso.
Questo episodio ha segnato un punto di rottura nella relazione tra i due piloti, con Stoner che ha dichiarato di aver perso rispetto per Rossi a causa di quella manovra, ritenendola pericolosa e scorretta. D’altra parte, Rossi ha difeso la sua azione, sostenendo che non c’era intenzione di danneggiare l’avversario e che la manovra faceva parte della normale battaglia in pista. Il confronto tra i due ha avuto ripercussioni anche sulla stagione successiva, con Stoner che ha ammesso di aver iniziato a provare astio nei confronti di Rossi dopo quell’incidente. Situazione che si ripeterà qualche anno più tradi che si può riassumere con la celebre frase di Casey Stoner, “Your ambition outweighs your talent”, diretta a Rossi, nel post gara del Gran Premio di Spagna del 2011 a Jerez. Durante quella gara, Valentino Rossi tentò un sorpasso su Stoner, ma perse il controllo della sua moto, causando una caduta che coinvolse entrambi i piloti. Dopo l’incidente, Rossi si è recò nel box di Stoner per scusarsi, ma la risposta dell’australiano fu quella frase. Una forma di già visto, come in quel 2008, un’altra azione non in linea con una correttezza e rispetto per avversario che è stata sempre presenta nel modo di intendere la corse da parte di Stoner.

I due appuntamenti successivi di quel 2008 dopo laguna seca– furono una vera mazzata: due “zeri pesantissimi” che gli costarono la vittoria nel campionato. Casey finì, alla fine, secondo.
Il 2009 inizia in grande stile: vittoria in Qatar, stagione promettente, se la gioca con Rossi e Lorenzo fino a Barcellona. Ma da quel momento inizia il vero calvario, non solo sul piano motociclistico. Nel paddock, Casey appare sempre più affaticato, strano, quasi fiacco. Dopo Barcellona, quasi sviene in parco chiuso: qualcosa nel suo corpo non va. Decide di prendersi una pausa, lontano dal Motomondiale. Torna in Australia, stacca completamente, vuole cercare di capire cosa succede al suo corpo. Si fa seguire da medici che inizialmente non riescono a capire il problema.
Si tenta una cura a base di lattosio, ma le cose peggiorano. Solo togliendo completamente il lattosio Casey trova sollievo: recupera, torna al mondiale e conquista un grande secondo posto. Vince in maniera autoritaria a Phillip Island, ma a Valencia, nell’ultimo appuntamento, cade nel giro di riscaldamento, rovinando la gara. Questo episodio segna una frattura: nel team Ducati alcuni dirigenti cominciano a dubitare di lui, e l’amore per il team e per la moto italiana inizia a sgretolarsi.
Nonostante tutto, Casey rimane in Ducati anche nel 2010, mantenendo fede al contratto, con un avantreno che non gli restituisce la fiducia del 2007 riesce comunque a conquistare 3 vittorie 2 secondi posti e quattro terzi chiude il mondiale in quarta posizione. Quell’anno il mondiale andrà a un altro fenomeno di nome Jorge Lorenzo.

Quando arriva l’offerta di Honda in HRC, Casey accetta senza esitazioni. Uno dei suoi idoli, Mick Doohan, lo aveva preceduto lì, e la mossa diventa il coronamento della sua carriera. Fin dal primo giorno in sella alla Honda, la supremazia è assoluta: velocità, confidenza, sintonia con la moto e con il team giapponese. Sorprendentemente, Casey si trova meglio, più a suo agio con i giapponesi che non con i Ducati, e quell’anno diventa una rivincita totale: dall’altra parte del box, Rossi e la Ducati faticano anche solo a metà classifica, mentre Casey domina con lucidità e sicurezza. Un tempo c’era competizione a parti invertite, Case sulla moto italiana e Rossi su una giapponese riuscivano a creare battaglie che facevano emozionare tanti appassionati ora proprio non c’è storia, quasi non si incrociano e quando succede arriva l’episodio di Jerez.
Il 2011 è l’anno del secondo trionfo mondiale per Casey Stoner. Con dieci vittorie, dimostra di essere il pilota più veloce del gruppo, anche se Jorge Lorenzo lo contende fino all’ultimo Gran Premio d’Australia. La supremazia è assoluta: Casey si laurea campione del mondo per la seconda volta, consolidando il suo posto nell’Olimpo del motociclismo.

L’anno successivo, il 2012, comincia alla grande: terzo posto in Qatar e poi due vittorie, Jerez ed Estoril. Con la Honda, tutto sembra a portata di mano, tutto ai suoi piedi. Eppure, il 17 maggio 2012, il mondo delle due ruote rimase senza fiato. Casey Stoner, campione in carica della MotoGP e ancora lontano dai trent’anni, annunciò che a fine stagione avrebbe detto addio alle corse. Una decisione che piombò come un fulmine in un cielo sereno, proprio nel momento in cui la sua carriera brillava di più.
Era leader del Mondiale, con due vittorie in tre gare e una moto che sembrava cucita addosso. Ma dietro l’immagine del pilota invincibile si nascondeva un uomo inquieto, che sentiva di non appartenere più a quel mondo fatto di gloria, sacrifici ma anche compromessi lontani dall’essenza pura della velocità. L’introduzione delle CRT fu uno dei tanti segnali che contribuirono a incrinare la sua passione: a Stoner sembravano macchine senz’anima, ben lontane dalla potenza selvaggia delle 500 con cui correva il suo idolo Mick Doohan. Non era però solo questione tecnica: dentro di lui cresceva la percezione che l’adrenalina, da sola, non bastava più.
Quando davanti ai giornalisti lasciò cadere la sua verità, il silenzio si fece pesante. Non parlava di sconfitte o di mancanza di competitività, ma di un fuoco interiore che si stava spegnendo. «Ho amato molto questo sport, ma le delusioni hanno finito per superare le gioie», disse. Non c’era amarezza, ma una lucida consapevolezza: il momento di chiudere era arrivato.
C’era però un altro elemento, infinitamente più grande di qualsiasi trofeo: la nascita della piccola Alessandra. Un nuovo centro di gravità che rendeva impossibile scendere in pista senza sentirne l’assenza, senza pensare a lei e ad Adriana. Quella paternità non fu una fuga, ma una vittoria diversa: scegliere di crescere insieme a una famiglia, piuttosto che rimanere prigioniero dell’eterna corsa contro il tempo.

E qui emerge la grandezza del suo gesto. Continuare fino a tarda età, come hanno fatto e fanno tanti campioni, può apparire segno di dedizione, ma talvolta è la scelta più semplice, quasi di comodo. Restare nel flusso dello sport che ti ha reso immortale significa non affrontare il vuoto, non misurarsi con l’ignoto. È una forma di egoismo che rimane avvolta nel fascino della leggenda, ma che rischia di togliere spazio alla vita vera, quella che si costruisce fuori dal paddock e dai riflettori. Dire basta, invece, richiede un coraggio infinitamente maggiore: spezzare il filo che lega all’adrenalina, rinunciare a un mondo che ti acclama, per scegliere il silenzio delle piccole cose quotidiane.
Eppure, il suo addio non fu solo privato. L’annuncio così precoce, all’inizio della stagione, fu un dono immenso ai tifosi: con quella decisione permise a ogni appassionato di vederlo un’ultima volta sul proprio circuito di casa, di alzare lo sguardo e ammirare ancora il talento più grande che il motociclismo abbia mai avuto. Stoner trasformò il suo commiato in un pellegrinaggio collettivo, un’occasione unica per dire addio non a un idolo, ma a un artista della velocità.
Lo disse una volta Danilo Petrucci, con parole che divennero proverbiali: la fasi della vita del motociclista può essere riassunta così – nasci, cresci, contempli un giro di Stoner a Phillip Island, ti riproduci e poi muori. Un pensiero che, riletto oggi, suona come poesia. Perché assistere a Stoner che danza tra le curve dell’isola australiana significava toccare con mano la perfezione: l’essenza stessa del motociclismo, sospesa tra controllo e follia, bellezza e ferocia.
Così Casey Stoner divenne campione oltre i cordoli. Rinunciò a milioni, a titoli possibili, alla fama stessa, per conquistare un bene più alto: la serenità di una vita vissuta per chi ama e non per chi applaude. Lasciò la leggenda al mondo delle corse e scelse l’umanità, quella più pura e autentica. Dimostrò che l’eroismo non è solo sfidare la velocità, ma anche avere la forza di fermarsi.
