C’è un’Italia che non si lascia piegare dall’oblio. Un’Italia che continua a battere nei motori accesi, nelle mani unte d’olio, negli sguardi che brillano davanti a una motocicletta. Questa Italia l’abbiamo incontrata a Varese, al Trentesimo Raduno Aermacchi, dove le vecchie officine sono tornate a vibrare di vita.
Non è stata una semplice esposizione di moto storiche: è stato un viaggio dentro la memoria collettiva. Le Aermacchi sono arrivate da tutta Italia, portate con orgoglio come fossero cimeli di famiglia. C’erano i modelli che hanno accompagnato studenti squattrinati e operai appassionati, e c’erano le regine da corsa, le stesse che negli anni d’oro hanno scritto pagine leggendarie di motociclismo sportivo.
A guardarle da vicino, non sembravano “pezzi di ferro”. Erano racconti in metallo e benzina. Ogni serbatoio, ogni telaio, custodiva la storia di un Paese che dopo la guerra volle rialzarsi correndo, trovando nel rombo di un monocilindrico la voce della propria dignità ritrovata.
Il raduno, però, non è stato solo un museo a cielo aperto. È stato fatto di strette di mano, abbracci, tavolate improvvisate, racconti ripetuti mille volte e mai uguali. In un mondo dove spesso i rapporti si consumano dietro uno schermo, qui sopravvive una comunità che resiste guardandosi negli occhi e condividendo ricordi come se fossero carburante.
Gli ospiti speciali hanno dato ancora più forza all’evento: Angelo Tenconi, con i suoi novant’anni portati come un trofeo, e Gino Tondo, la “Freccia del Sud”, che ha dimostrato come il mito della velocità non conosca ruggine. Attorno a loro uomini e donne dai capelli bianchi, custodi di un sapere che rischia di perdersi, ma che ancora oggi trasmette emozione pura.
Aermacchi, però, non è stata solo motocicletta: è stata cultura popolare e identità sociale. Era il simbolo di un’Italia che sapeva costruire, di comunità che si riconoscevano nel rombo di un motore come in un canto comune. Era ingegno trasformato in libertà.
Oggi, invece, viviamo in un presente che brucia in fretta e dimentica altrettanto velocemente. Le moto troppo spesso sono ridotte a status symbol effimeri, prodotti da vetrina destinati a invecchiare con l’obsolescenza programmata. Ecco perché raduni come questo valgono più di mille discorsi ufficiali: perché custodiscono la memoria viva di un Paese.
Ma questa memoria non può restare solo nelle mani dei veterani. Serve il coinvolgimento dei giovani, serve un passaggio di testimone. Le scuole, i club, i musei, persino i media dovrebbero aprire le porte a questa storia, trasformandola in un’eredità condivisa. Le istituzioni, troppo spesso assenti, dovrebbero considerarla parte integrante della nostra cultura, non semplice folklore.
Noi ci proviamo, nel nostro piccolo: a raccontare, a tramandare, a tenere viva la fiamma. Perché sappiamo che un Paese senza memoria è un Paese senza futuro.
A Varese, quelle moto ci hanno ricordato che l’Italia sa ancora costruire sogni di ferro e libertà. Sta a noi decidere se ascoltarle o lasciare che diventino solo silenzio e ruggine.
E noi, qui, scegliamo di ascoltarle. Sempre.