Un giorno di Gennaio di qualche anno fa, un grande uomo ha interrotto per sempre il viaggio nella terra che amava. Quella terra che lo aveva completato facendogli trovare la sua dimensione elevandolo a mito ed esempio. Sì, perché Fabrizio Meoni prima di essere un pilota è un esempio e la sua è una storia da raccontare.
Classe 1957 nato a Castiglion Fiorentino, esordisce nell’enduro nel 1974 con una Ancillotti 50 cc con cui disputa diverse gare regionali ottenendo ottimi risultati. Dopo esperienze con Beta 125 e SWM 125, nel 1978 lascia gli studi di ingegneria e si dedica completamente alle moto e si laurea campione italiano enduro 125 con una Fantic Motor, titolo che gli vale il passaggio nella nazionale enduro.
L’anno successivo si dovrà fermare a causa del servizio militare. Al rientro si trova di fronte alle scelte che ogni uomo devo compiere e con l’enduro non ci si paga l’affitto o il mutuo così decide di aprire una concessionaria di moto che, insieme al socio Paolo Accia, chiama “Steels”. L’attività lo assorbe completamente portandolo ad interrompere l’attività agonistica fino al 1987, quando decide di ascoltare una voce dentro di lui: la voce della passione.
Tanti lasciano che le responsabilità e le rassicurazioni abbiano la meglio sul sogno ed ascoltano la razionalità, consegnando quel sogno nelle mani del ragazzino che si rivedrà poi nelle foto che sbiadiscono col passare del tempo, ma Meoni non è uno dei tanti.
Fabrizio decide di vivere la sua passione ed inseguire il suo sogno, quello di guidare le moto e nel’87 decide di tornare a gareggiare, tuttavia non in modo continuativo e senza un vero allenamento a causa degli impegni lavorativi, con una KTM 250 cc.
Si mette in evidenza tra i grandi e già nell’88 quando partecipa all’intero campionato diventa campione italiano di enduro.
Sembrerebbe diretto verso una carriera vittoriosa in questa disciplina ma, come già gli capitò solo qualche anno prima, decide di ascoltare un’altra voce e percorrere una nuova strada, diversa da quella che sembrava già tracciata: con una KTM 350 presa a noleggio e con una frattura dello scafoide a limitarlo, partecipa al suo primo Rally, l’Incas Peru e conclude al quarto posto.
Ha trovato la sua dimensione: i rally. E i rally hanno una propria collocazione geografica ben definita: Africa.
Nel ’90 fa la sua prima esperienza in terra d’Africa con una KTM 500 2t al Rally di Tunisia non arriva al traguardo a causa di una caduta che lo costringe al ritiro. Si frattura il bacino e i medici gli prescrivono 4 mesi di riposo assoluto. Incurante dei pareri dotti si iscrive ai 6.700 chilometri da percorrere in 3 settimane in terra sudamericana dell’Incas Rally e lo vince!
Al ritorno di questa impresa lo attende un lenzuolo scritto dalla sorella che riporta: “Dakar aspettaci”.
L’attesa è breve, nel 1992 partecipa con un Yamaha privata alla sua prima Parigi Dakar e conclude 12.mo assoluto, primo tra i privati, una impresa che impressiona tutti gli addetti ai lavori. L’amore con l’Africa ormai è scoccato!
Nel ’94 Meoni con una Honda monocilindrica privata arriva addirittura terzo, solo le bicilindriche riescono a sopravanzarlo: una dei migliori traguardi di sempre in quanto ottenuto da privato. Si susseguono i Rally che portano il suo nome come vincitore: Faraoni, Dubai, Tunisia. E’ solo la Parigi Dakar che gli sfugge.
Nel’96 passa alla KTM ufficiale e alla Parigi-Dakar di quell’edizione dopo aver ottenuto tre vittorie di tappa deve abbandonare per un banale guasto. L’anno successivo è una caduta con conseguente frattura del polso ad impedirgli di raggiungere il sogno. Nel’98 è celebre lo sfogo all’arrivo di una tappa che lo vide attardato a causa di un guasto al GPS che di fatto lo ha relegato al secondo posto dietro a Petheransel. “GPS di merda!” Un urlo che porteremo sempre con noi…un urlo dell’uomo contro quella tecnologia di cui oggi siamo schiavi.
Nel ’99 termina decimo ma solo perché un guasto al motore gli fa perdere minuti importanti.
Nel 2000 si ritira dopo quattro tappe. Ormai è un pilota di primissimo livello ma le noie meccaniche lo hanno sempre tenuto lontano da quel successo che ormai ha dimostrato di poter cogliere.
Nel 2001 finalmente la sfortuna decide – ma solo per poco tempo – di guardare altrove e vince la sua prima Parigi Dakar. Un italiano sul tetto del mondo.Un italiano che mentre è sul palco ad esultare confida di aver pianto. Non un pianto di gioia o commozione ma quello dovuto ad una consapevolezza, quella dei propri limiti e dell’aver visto con mano la vera ingiustizia umana.
Furono quei bimbi sporchi e malnutriti ai piedi di quel palco a far piangere quell’uomo imponente rinominato tra gli altri il Gigante Buono, quell’emozione che lo spinse ad impegnarsi per aprire una scuola vicino alla meta finale della Dakar, il famoso lago Rosa.
Quel luogo oggetto della famosa frase di Sabine, l’ideatore della Dakar “all’arrivo sulla spiaggia del lago ROSA sarà un altro uomo colui che lancerà in aria il suo casco”.
Nel 2002 a 44 anni bissa il successo, celebre sarà la tappa in cui non era previsto l’uso del GPS e da terzo sopravanza tutti e si porta al comando, l’ennesima impresa di questo incredibile professionista.
Il 2003 si preannuncia come l’ipotetico terzo sigillo ma in una delle prime tappe un guasto al motore gli fa perdere oltre quaranta minuti. Nel corso di tutta la Dakar sarà una rimonta continua fino a quanto a sole 4 tappe dalla fine è a ridosso del capolista con quasi tutto il ritardo annullato.
Per realizzare l’impresa serve andare al massimo e questo lo porta ad una banale caduta che compromette seriamente la moto ma riesce a rimettersi in sella e a bordo di una moto senza carena e con i danni fisici riesce ad arrivare al traguardo di tappa e terminare la Dakar al terzo posto dietro a Despres e Sainct. Se non ha vinto ha comunque regalato le emozioni più forte ed intense di tutta quell’edizione.
Nel 2004 è sesto a causa dell’ennesimo guasto meccanico. Nello stesso anno vivrà una delle peggiori emozioni della sua vita, al Rally dei Faraoni muore il suo compagno di squadra Sainct a seguito di una caduta.
Di fronte alle domande che inevitabilmente nacquero in momento, lui e l’altro compagno di squadra Despres risposero in un modo unicovoco: in onore di Saincts una KTM doveva essere la vincitrice della Dakar 2005.
Avrebbe dovuta essere la sua ultima Dakar, a 46 anni le sue visite in Africa sarebbero dovute essere di altra natura.
All’undicesima tappa della Dakar 2005, l’11 Gennaio, davanti ad una duna, trovò quel pezzo di deserto che lo volle sempre con se. Fanno ancora emozionare oggi, a distanza di anni le immagini di Despres accovacciato sulla sua moto e in preda ad un pianto inconsolabile quando apprese la notizia della morte di Fabrizio.
Lo hanno chiamato in tanti nomi: Gigante Buono, Cinghiale, Re del deserto, Africano. A noi piace ricordarlo come il vincitore di 2 Dakar, 4 Rally di Tunisia e il dominatore del rally di Egitto dal 1998 al 2001, un uomo che ha dato tanto al nostro sport e non solo in termini di risultati sportivi.
Dedizione, capacità e perseveranza lo hanno portato a traguardi impensabili per la maggior parte di un uomo comune, come vincere la Dakar a 40 anni passati dominando bisonti a due ruote, ma soprattutto l’aver realizzato opere di carattere umanitario in favore della gente che tanto amava, i bambini d’Africa, grazie all’associazione “solidarietà in buone mani” con la quale riuscì a costruire una scuola per bambini in Senegal.
Ricordiamo questo grande pilota nel giorno della sua dipartita segnalando la ONLUS creata in suo nome per aiutare le persone più in difficoltà, sicuri che lui stesso sarebbe stato il primo sostenitore della causa. www.fondazionefabriziomeoni.it
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